mercoledì 17 ottobre 2012

Sinistra americana ed europea. Non siamo poi così distanti.


di Valerio Morabito

«Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni.
Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del Paese sulla base del prodotto interno lordo.
Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.
Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle.
Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini.
Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.
Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago.
Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei nostri valori familiari o l’intelligenza del nostro dibattere.
Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro Paese.
Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta
».

Un socialismo che costruisce ponti e non alza muri
- Leggendo questa riflessione di Robert Kennedy, «Il Pil non misura tutto», mi è venuto in mente che le differenze tra la sinistra europea e la sinistra americana non sono poi così marcate. Certo quando il fratello dell’ex Presidente degli Stati Uniti d’America ha messo su carta una considerazione del genere, in un momento storico caratterizzato dalla guerra fredda e dalla contrapposizione ideologica tra capitalismo e comunismo, non si sarebbe mai potuto affermare che il pensiero dei progressisti del Vecchio continente e del Nuovo mondo fosse diviso soltanto dall’Oceano Atlantico. Sarebbe stata un’eresia degna di un’epurazione staliniana. Per fortuna oggi la storia ha voltato pagina. Il muro di Berlino, simbolo della divisione del mondo in due blocchi, è stato abbattuto e finalmente ci si è resi conto che l’obiettivo del socialismo è creare ponti tra i popoli e non muri che impediscono il dialogo ed il confronto. Lo scenario planetario è cambiato e quindi non c’è nessuna difficoltà nell’affermare che la politica di Bill Clinton, di Barack Obama o dei democratici americani in genere non è poi così differente da quella dei progressisti e socialisti europei.

Clinton e Gramsci
- Non è un segreto che l’ex Presidente degli Usa ha studiato in Inghilterra ed è un buon conoscitore di Antonio Gramsci e secondo alcuni studiosi come Ernest Laclau e Chantal Mouffe, è proprio Bill Clinton, partendo dal concetto di egemonia in Gramsci, che ha rappresentato durante il suo mandato quel punto di contatto «tra la radicalità della politica rivoluzionaria ed il rispetto delle differenze nella società capitalista avanzata» (Hegemony and socialist strategy: toward radicaldemocratic politics, p. 214). Il Presidente Clinton, il new labour Party di Tony Blair e anche i Democratici di Sinistra in Italia si sono allontanati sempre più dal materialismo storico, che è alla base del pensiero di Gramsci, e sono approdati ad una visione democratica riformista.

Roosvelt, Obama e il socialismo
- Al di là del legame di Clinton con il pensiero politico marxista italiano (ovviamente rivisto e riadattato al contesto storico), possiamo tornare indietro nel tempo, ad esempio negli anni ’30 del Novecento, e tenere in considerazione il Presidente Roosvelt quando applicò le politiche del New Deal per contrastare la Grande Depressione e si circondò di collaboratori che non nascondevano le loro simpatie per il socialismo. Ultimo, ma non per importanza, è Barack Obama che si è formato con letture di autori anti-imperialisti che popolavano le biblioteche delle sinistre europee. Inoltre il suo ingresso in politica a Chicago è andato di pari passo con i movimenti afroamericani, che hanno sempre fatto del marxismo un faro ideologico.      

Facciamo parte della stessa storia
- Da questo breve excursus si può notare che le differenze non sono poi così marcate e anche se molti storcono il naso quando si parla di una politica di sinistra sia in Europa che negli Stati Uniti d’America, credo che noi e loro facciamo parte di una stessa storia. Forse siamo giunti allo stesso punto da strade diverse, ma il futuro ci farà combattere le stesse battaglie. Progressisti europei ed americani hanno il compito di dare una risposta credibile per uscire da questa lunga crisi economica e dare un futuro migliore alle nuove generazioni. Un sfida complicata che non può lasciare spazio ad inutili divisioni ideologiche.       

domenica 7 ottobre 2012

Economia ed etica. Un binomio per uscire dalla crisi.

Pubblichiamo di seguito un articolo appena inviatoci da un nuovo collaboratore del Movimento per il Socialismo Europeo, Valerio Morabito, del quale troverete la biografia al termine della pagina. Nel testo, si ripercorre il rapporto tra etica ed economia dall'antichità a oggi, presentando la necessità di mantenerle unite per garantire uno sviluppo equo e umano.
 

di Valerio Morabito*

La crisi economica che ha travolto gli Stati Uniti d’America e l’Europa, ha smascherato una parte del sistema capitalista che ha fatto del non rispetto delle regole una delle sue bandiere. Nei mercati finanziari mondiali pochi si sono arricchiti a danno di molti. La finanza creativa ha generato un benessere fittizio sfociato nella crisi dei mutui subprime, che per effetto della globalizzazione si è diffusa a macchia d’olio in tutto il mondo. In questa situazione sono diversi gli studiosi che stanno cercando di trovare una via d’uscita alla crisi economica e molti di loro hanno riscoperto una parola che le politiche liberiste avevano messo da parte: etica. Un termine, a mio modo di vedere, che deve camminare di pari passo con l’economia se si vuole uscire da questo tunnel.

Etica ed economia devono tornare a collaborare e a completarsi a vicenda. Non c’è niente di nuovo in questa ricetta. Occorre soltanto ricordare com’è nata l’economia e come, con il trascorrere dei secoli, la sua funzione è degenerata quando si è allontanata ed affrancata dalla filosofia e dall’etica. Gli esperti evidenziano tre fasi in questo rapporto: in una prima fase economia e filosofia sono intrecciate tra loro, in un secondo momento si distaccano, mentre nei primi del Novecento si riavvicinano in maniera equivoca.

L’economia esiste sulla faccia della terra da quando è comparso l’uomo. Questa disciplina si è palesata nel momento in cui si è stabilito il valore di scambio. È chiaro che l’economia nasce prima della filosofia, perché concerne la base della regolamentazione umana. Sin dalla sua nascita l’economia esiste per stemperare la ferocia tra gli uomini e quindi ha una base etica indiscutibile. L’autonomia dell’economia viene meno nel momento in cui nasce la filosofia, che pone sotto la sua protezione la disciplina economica. Da questo momento in poi i filosofi iniziano ad occuparsi di tematiche economiche: Platone le affronta in particolar modo nella Repubblica ed Aristotele è il primo a parlare di economia politica. Nell’Etica Nicomachea il filosofo di Stagira espone un discorso di economia monetaria, in cui sostiene che il valore della moneta è un’unità di misura al fine di scambiare le merci. Nell’antichità e nel Medioevo l’economia non si emancipa dalla filosofia. Nel Medioevo, età contemplativa per eccellenza, l’attività economica è legata a pratiche religiose e metafisiche.

Tutto cambia nell’epoca moderna con l’affermarsi del paradigma galileiano, che ribalta la supremazia della filosofia sulla scienza. È chiaro che il rapporto tra filosofia ed economia è destinato a mutare radicalmente. L’economia moderna è fortemente caratterizzata dalla visione di Thomas Hobbes e di Adam Smith. Quest’ultimo, che prima della cattedra a Glasgow in economia è stato titolare di cattedra in filosofia morale, sostiene che «il prezzo reale di una merce è uguale al lavoro svolto». È con Smith che l’economia diventa scienza autonoma ed è sempre il filosofo ed economista scozzese ad affermare, rifacendosi a Vico, che l’uomo è vizioso, però, per stare insieme con gli altri ha limitato la sua viziosità.

Nell’Ottocento Karl Marx espone al mondo le sue tesi rivoluzionarie e fa del legame tra filosofia ed economia un nesso inscindibile ed irrinunciabile. Tutta la visione economica del filosofo del comunismo si fonda su una base filosofica ed i costrutti umani si possono spiegare rifacendosi all’economia. L’intelligenza di Marx sta nel costruire una struttura economica su una tesi filosofica. Sempre in questo secolo l’onda lunga dell’Illuminismo genera il Positivismo, che è convinto di ottenere una verità oggettiva (mito dell’oggettività scientifica). Anche l’economia, che vuole essere scienza, cerca di riposizionarsi su questi binari e quindi l’allontanamento dalla filosofia è una logica conseguenza. Secondo Vilfredo Pareto lo scienziato economico deve fotografare la realtà in maniera oggettiva. L’economista viene paragonato al fisico e la sua parola d’ordine è la misurabilità. In questo momento storico l’economia si tramuta in una scienza che va al di là delle sue capacità, perché pretende di dire l’ultima parola sulla realtà. L’economia, privata della sua eticità, diviene arida. Uno dei primi studiosi ad accorgersi di tutto questo è Benedetto Croce, che sostiene come l’economia matematizzata non è una disciplina che riguarda l’uomo. L’economia è una forma dell’agire umano, per Croce, in cui il singolo è responsabile.

Nel Novecento il distacco tra economia e filosofia viene meno, ma come detto in precedenza è un legame equivoco. Gli economisti si rivolgono alla filosofia per trovare un aspetto metodologico e ci si rivolgerà in particolar modo alla filosofia della scienza. Karl Popper e Thomas Kuhn sono i due grandi mentori. Il merito del primo è di aver fatto argine contro l’induttivismo presente anche in economia, mentre il merito del secondo (che possiede una visione più realista rispetto a Popper) è di aver avviato una svolta storicista. In questo momento storico appare il paradigma della complessità, che mette in luce un elemento etico molto forte nell’economia, e riprende quella dimensione filosofica che si era persa dopo Adam Smith. Del resto un’economia fondata sul paradigma classico non può che essere astratta.

Grazie al paradigma scientifico della complessità, oggi la filosofia è tornata a caratterizzare l’economia. Un esempio lampante è rappresentato dal sistema della globalizzazione che caratterizza le nostre società. L’economia come attività a se stante ha fallito e l’etica deve tornare al centro del suo interesse. Amartya Sen, che ha fondato la sua teoria economia sull’etica, ha detto: «non è possibile una pura teoria economica senza un aspetto etico». Senza l’etica, aggiunge Sen, l’economia non da risposte concrete ai problemi di oggi.

Qui si è chiuso il cerchio. L’economia è tornata alla filosofia e adesso occorre recuperare l’aspetto etico del quale si era liberata. L’etica, oggi considerata la base da molte aziende che cercano il rilancio, è un elemento chiave per lasciarci alle spalle questa crisi economica. Tramite l’etica l’economia può diventare più umana e meno tecnica. Su una base etica possiamo costruire un’economia che guarda ai veri bisogni dei cittadini. Sul pilastro dell’etica le nostre aziende possono rilanciarsi nel mercato globale. Questa crisi economica può essere un’opportunità e può farci riscoprire l’importanza di una parola che durante l’epoca della technè è stata messa da parte.

* Valerio Morabito è nato a Brescia il 22-06-1985, ha vissuto a Messina fino alla laurea magistrale in Filosofia contemporanea conseguita presso l'Università degli studi di Messina. Sempre nelle città siciliana ha frequentato un Master in counseling filosofico e sviluppo etico delle risorse umane. Attualmente vive a Campobasso dove lavora come consulente filosofico presso il Liceo classico "Mario Pagano" ed è iscritto ai Giovani Democratici della sezione del capoluogo molisano.

Il Rinnovamento (e la Rottamazione) non sono questioni generazionali

Nel mio post di ieri ho evidenziato la secondo me giusta battaglia di Renzi sul necessario rinnovamento della classe dirigente che ha guidato la Seconda Repubblica (a destra come a sinistra). La questione non può essere riferita esclusivamente all'aspetto generazionale (pur riconoscendo che la gerontocrazia è un tratto evidentissimo dell'Italia attuale). La sfida che dobbiamo cogliere è quella di innovare la politica del nostro Paese, con competenze e progetti che contribuiscano a far uscire l'Italia dal "tunnel" (citando Monti). La questione non è avere vent'anni o settanta. Il discrimine sono le buone idee e la credibilità personale. Io credo che la via d'uscita sia quella di costruire in Italia una grande partito che si ispiri al PSE nelle sue scelte politiche e programmatiche. Un percorso da fare alla luce del sole, spingendo le altre forze della sinistra di governo (PD e SEL) ad accettare questa sfida. Porre la questione di un percorso costituente che in un futuro (spero) prossimo dia vita anche in Italia ad un Partito Socialdemocratico che guidi le forze che si oppongono ai partiti e ai movimenti conservatori e popolari. Per fare questo percorso è fondamentale la spinta dei socialisti e di quanti, nei diversi partiti, si riconoscono nel PSE. E' per questo che una candidatura socialista alle primarie avrebbe dato e darebbe molto in termini di programma e cultura politica. Pur apprezzando la richiesta di rinnovamento che viene da Renzi, il Sindaco di Firenze si pone fuori dal percorso politico e programmatico del PSE e come tale mi sembra innaturale che i socialisti (ovunque dispersi) lo possano sostenere...    

Alessandro Bechini

sabato 6 ottobre 2012

La Rottamazione non è tutto, ma è già abbastanza...

Questo pomeriggio sapremo le regole delle primarie del centrosinistra. Al termine dell’Assemblea del PD che si annuncia molto “dibattuta”. Succede solo in Italia (dove le primarie sono più una conta interna per  riscrivere equilibri di potere tra le diverse correnti) che le regole delle primarie di coalizione vengano decise dopo che sono già partite “ufficiosamente” da oltre un mese e che vengano fissate dal partito di maggioranza relativa.
La sfida sarà tra Bersani e Renzi. Una partita tutta interna al PD, con Vendola come terzo incomodo più impegnato a ricomporre l’area anti-liberista a sinistra del PD, piuttosto che a concorrere davvero per la poltrona di premier. Bersani per storia e programma è l’uomo più vicino ai principi e al programma del PSE.
Renzi è sicuramente un eretico all’interno della sinistra e del PD. La sua non ortodossia al pensiero dominante lo ha già inviso alla vecchia guardia e ai loro filosofi di riferimento. Scalfari (il vero maitre a pensér della sinistra post comunista della Seconda Repubblica) lo ha già scomunicato con il peggior epiteto che possa colpire chi proviene da quella storia e da quella cultura: Renzi, sei come Craxi! Annunciando che se sarà lui a guidare il centrosinistra lui resterà a casa e non voterà (bontà sua…).
Renzi ha posto due questioni con le quali il PD e il centro sinistra si trastullano da anni, senza avere il coraggio di arrivare alle inevitabili ed estreme conseguenze: quello del ricambio della classe dirigente e della questione generazionale che pesa sul centrosinistra sia a livello nazionale che a livello locale. I giovani del PD (ma anche degli altri partiti) non hanno mai avuto il coraggio di fare una battaglia in campo aperto su questa questione fondamentale, preferendo mettersi in fila aspettando il proprio turno a discrezione dei vecchi potentati, raccogliendo nel frattempo briciole più o meno consistenti e gratificanti. Renzi è accusato di parlare solo di rottamazione. Di non avere un programma che vada oltre questa aggressiva richiesta. Fosse anche, sarebbe già abbastanza. Questa classe dirigente del PD (quella dei vari D'Alema, Bindi, Veltroni, ecc.) è unanimemente riconosciuta (anche dai dirigenti e dagli elettori del centrosinistra) come corresponsabile della melma nella quale la salvifica Seconda Repubblica ci ha portato. Questo non è un pezzo di programma da buttare via con un'alzata di spalle dicendo: Renzi è solo questo. Perché per il 75% degli italiani oggi questo è IL punto programmatico che vogliono sentirsi dire e hanno ragione di chiedere che venga detto e fatto. E' sufficiente per far ripartire l'Italia? Certo che no, ma oggi l'elemento di fiducia in chi guida il Paese e rappresenta i cittadini è un elemento essenziale per accettare i sacrifici che chiunque andrà al governo dovrà continuare a chiedere al Paese. Iniziare a colmare oggi quell'enorme deficit di credibilità che ha la politica agli occhi dei cittadini è l'elemento primo per poter rimettere in moto l'Italia. Poi su questo si innestano le proposta del socialismo europeo, il rilancio del mezzogiorno, i diritti civili, un nuovo welfare. Ma chi sono gli attori della sinistra che dovranno metterli in pratica? Gli stessi che hanno votato il pacchetto Treu che ha creato una generazione di giovani precari sottopagati? Che hanno svenduto le aziende di Stato? Che sono orgogliosamente usciti dal PSE perché la socialdemocrazia era roba passata (salvo poi intestarsi le vittorie di Zapatero e Hollande)? Che non riescono nemmeno a dire "matrimonio" quando si parla di regolarizzare il rapporto affettivo tra due persone dello stesso sesso? Bersani ne tenga conto. E i Socialisti lavorino per rendere il rinnovamento della classe dirigente a livello locale e nazionale come un tema non negoziabile. In attesa che i giovani si facciano avanti senza aspettarsi benedizioni o paracadute…
Alessandro Bechini

venerdì 5 ottobre 2012

Gocce storiche sul socialismo europeo: gli esordi liberalsocialisti in Gran Bretagna. (1)


Quanto segue è parte di una serie di articoli nella quale cercheremo di tracciare una brevissima e – ahimè – incompleta storia del socialismo europeo, con particolare attenzione all’evoluzione della teoria socialdemocratica e liberalsocialista.

Il primo paradigma dell’incontro tra liberalismo e socialismo, la cui più evidente immagine è l’avvicinamento tra libero mercato e presenza attiva dello Stato – quanto Pellicani definisce «il compromesso socialdemocratico» – è senza dubbio la Gran Bretagna. Già nell’Ottocento, alcuni pensatori e politici pienamente inseriti nel contesto del liberalismo classico, ma non nel senso dell’old whig citato da Von Hayek, cominciarono a intravedere la necessità di considerare in modo più diretto le problematiche sociali e del lavoro. I riferimenti, in questo caso, sono alle opere di Mill, alle soluzioni razionali dello Stato di Hobhouse, all’imprescindibile legame tra emancipazione collettiva e libertà individuale di Hill Green, alle elaborazioni di Wells, Webb e Shaw. A riguardo, la Società Fabiana (1884), sebbene con i propri evidenti limiti, ebbe il merito di proporre la necessità di sottrarre la terra e il capitale «dalla proprietà individuale o di classe […] trasfer[endoli] alla comunità nell’interesse generale», pur rifiutando le teorie marxiste della rivoluzione violenta e della fine fatalistica del capitalismo.

Il simbolo della Fabian Society.
(Fonte: Wikimedia Commons)

Nel clima del liberalismo progressista britannico della seconda metà dell’Ottocento, quindi, si cominciarono a ritenere del tutto conciliabili l’insindacabile diritto alla libera iniziativa e le istanze delle masse, purché gli eccessi in entrambi i sensi fossero temperati dalla sicurezza che il mutamento del sistema avvenisse con le garanzie dello Stato costituzionale. Scriveva Webb nel 1889: «Tutti gli studenti della società che sono al passo coi tempi, quindi ugualmente socialisti e individualisti, sono coscienti che importanti cambiamenti organici possano essere solo: 1) democratici, pertanto accettabili dalla maggioranza del popolo e comprensibili da tutti; 2) graduali, affinché, per quanto possa essere rapido il ritmo del progresso, essi non creino sconvolgimenti; 3) non ritenuti immorali dalla massa, cioè non soggettivamente demoralizzanti; 4) almeno nel nostro Paese, costituzionali e pacifici».

In poche parole, il socialismo poteva senza complessità divenire la naturale prosecuzione del liberalismo, ossia ciò che in Italia sostennero Salvemini, Rosselli, Gobetti, Calogero e altri. Quanto ai socialisti riformisti, soprattutto Turati, Mondolfo,Treves e Matteotti, essi condussero con forza la scelta riformista e democratica, ma non ritennero direttamente che il liberalismo potesse unirsi in un unico cammino con il socialismo.

Beniamino Franceschini

Sandro Pertini: Appello ai Giovani

Sandro Pertini
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