Quanto segue è parte di una serie di articoli nella quale cercheremo di tracciare una brevissima e – ahimè – incompleta storia del socialismo europeo, con particolare attenzione all’evoluzione della teoria socialdemocratica e liberalsocialista.
Il primo paradigma dell’incontro tra liberalismo e socialismo, la cui più evidente immagine è l’avvicinamento
tra libero mercato e presenza attiva dello Stato – quanto Pellicani definisce «il compromesso socialdemocratico» – è senza dubbio la Gran
Bretagna. Già nell’Ottocento, alcuni pensatori e politici pienamente
inseriti nel contesto del liberalismo classico, ma non nel senso dell’old whig citato da Von Hayek,
cominciarono a intravedere la necessità di considerare in modo più diretto le
problematiche sociali e del lavoro. I riferimenti, in questo caso, sono alle
opere di Mill, alle soluzioni
razionali dello Stato di Hobhouse,
all’imprescindibile legame tra emancipazione collettiva e libertà individuale
di Hill Green, alle elaborazioni di Wells, Webb e Shaw. A riguardo,
la Società Fabiana (1884), sebbene con i propri evidenti limiti, ebbe il merito
di proporre la necessità di sottrarre la terra e il capitale «dalla proprietà
individuale o di classe […] trasfer[endoli] alla comunità nell’interesse
generale», pur rifiutando le teorie marxiste della rivoluzione violenta e della
fine fatalistica del capitalismo.
Il simbolo della Fabian Society. (Fonte: Wikimedia Commons) |
Nel clima
del liberalismo progressista britannico della
seconda metà dell’Ottocento, quindi, si cominciarono a ritenere del tutto
conciliabili l’insindacabile diritto alla libera iniziativa e le istanze delle
masse, purché gli eccessi in entrambi i sensi fossero temperati dalla sicurezza
che il mutamento del sistema avvenisse con le garanzie dello Stato costituzionale. Scriveva Webb nel 1889: «Tutti
gli studenti della società che sono al passo coi tempi, quindi ugualmente socialisti
e individualisti, sono coscienti che importanti cambiamenti organici possano
essere solo: 1) democratici, pertanto
accettabili dalla maggioranza del popolo e comprensibili da tutti; 2) graduali, affinché, per quanto possa
essere rapido il ritmo del progresso, essi non creino sconvolgimenti; 3) non ritenuti immorali dalla massa, cioè
non soggettivamente demoralizzanti; 4) almeno nel nostro Paese, costituzionali e pacifici».
In
poche parole, il socialismo poteva senza complessità divenire la naturale
prosecuzione del liberalismo, ossia ciò che in Italia sostennero Salvemini, Rosselli, Gobetti, Calogero e altri. Quanto ai socialisti
riformisti, soprattutto Turati, Mondolfo,Treves e Matteotti, essi condussero con forza la scelta riformista e
democratica, ma non ritennero direttamente che il liberalismo potesse unirsi in
un unico cammino con il socialismo.
Beniamino Franceschini
Nessun commento:
Posta un commento